In una serata di fine Ottobre, presso l’ospitale ed empatica Lokanda Devetak, è andato in scena un pizzico di storia: la presentazione di due anteprime vinicole, sintesi di quel compendio di uomini e roccia che è il Carso-Kras.
Le due novità assolute, figlie di lunghe sperimentazioni ed attese, affondano le radici nella roccia, Kamen in lingua slovena. La coniugazione tra l’agricoltura e la pietra, in questo areale, si accompagna in tutto, dal vigneto ai recipienti ed alle attività umane.
A fare da sfondo alle presentazioni e renderle ancora più suggestive c’è un’osteria con 150 anni e 6 generazioni: la Lokanda Devetak, un luogo dove poter sperimentare, intrattenere il palato e ritrovare sollievo, convivialità e piacere.
Ma veniamo ai vini, fulcro di una serata, rispettosa delle regole dettate dal periodo, eppur lieta, grazie alla leggerezza della conduzione di Stefano Cosma, sempre sorridente e foriero di aneddoti lungo l’intero scorrere dei bicchieri.
La prima novità, la Skerk Glera 18/10 2015 metodo ancestrale, è una sintesi di vigneti e persone tra le rocce: è questo il sottotitolo che apporrei al metodo ancestrale della creazione di Skerk, nata da un piccolo vigneto che visitai anni or sono, nell’ambito delle visite propedeutiche a Slow Wine. Le piante erano giovani al tempo, appena impostate sul costone e con una già memorabile e sbalorditiva vista sul mare. Dopo anni ecco i risultati: un Prosecco in versione ancenstrale eppur intriso di modernità, che non fatico a definire dotato di autenticità.
Dove è coltivato non c’è il consueto calcare della roccia carsica, bensì flisch che caratterizza il costone, a conferire una grassa morbidezza e cesellatura alle uve. Qui Sandi per raggiungere mezzo ettaro in termini di pastini ha dovuto metter assieme e d’accordo una ventina di ex proprietari: non ha lavorato in un contesto facile che riafferma che niente è agevole sul Carso-Kras.
Il vino, frizzante, si giova di uve dal grappolo più piccolo e delle bucce di maggior spessore rispetto alla glera veneta. Soprattutto, come sottolinea Sandi, “Noi il vino lo facciamo in vigna e non in cantina”, dove l’uva, che viene vendemmiata tardivamente (da qui la dicitura 18/10, riferita alla data di vendemmia di questo millesimo), prosegue un percorso prima segnato dalla macerazione, poi dalla presa di spuma e infine da quattro anni di maturazione prima della sboccatura.
Intrattiene gli occhi dorato e il palato con un tocco frizzante delicato, personale, intimo. E’ quasi timido, come Sandi al primo impatto. Poi è fluido, determinato dalle bucce, imbastito sul gioco tattile tridimensionale dato da bucce, bollicine e delicata astringenza. Recupera in trazione e grip sulla beva rispetto ad un macerato fermo con il quale condivide il marchio dettato dai lieviti della cantina. È salato e saporito, a ricercare una trasposizione del gusto umami nel vino.
Il secondo vino presentato in anteprima è la Vitovska 67 2018 Skerlj, che, come già intrapreso da Zidarich, prevede l’affinamento in anfore di pietra di Aurisina: roccia carsica ovviamente. I contenitori di questo materiale fortemente dissipativo del calore sono posti fuori terra e ci restituiscono un gioioso succo dall’impatto agrumato. Quest’uva, figlia di glera e malvasia, presenta nei vini di Matej un impatto fruttato esplosivo ed in particolare contrassegnato dagli aromi di albicocca che li rende piacevolmente identitari. In questa versione il frutto, così riconoscibile nelle sue creazioni e qui ricordato dal colore del vino, è più defilato in termini di sentori rispetto al solito. Sono invece preponderanti al naso le note di datteri e fichi secchi. Il sorso è ghiotto e la trama gentile.
Mentre approcciamo questa sua nuova creazione Matej ci ricorda che anche suo nonno era impegnato in agricoltura ma che questa era più variegata rispetto ad oggi. Dal suo primo imbottigliamento nel 2004 ha riposto le sue energie nella conduzione del vigneto: su un territorio come il Carso, senza spazi, egli cerca nell’estrazione e nella macerazione una via di ricerca finalizzata alla massima potenzialità. Non senza un orgoglio egli ci ricorda la bellezza di poter scegliere di macerare o meno. A questo si aggiunge la possibilità di farlo con le uve dei vitigni autoctoni, quale autentica espressione di ricchezza e di libertà. E così un luogo apparente brullo ed ostile, diventa stupendo, sebbene composto da terra arida e faticosa ma in grado di compensare con altre forme di generosità.
Al sorso Skerlj Vitovska 67 (Il curioso numero 67 è riferito alla data di nascita delle figlie, nate entrambe il 6 luglio) propone una risoluzione piacevolmente fredda e levigata, a richiamare in forma tattile l’esperienza della pietra che lo ha contenuto. La beva è appagante, timida nelle sue espressioni, importante nello spessore.
Appare riuscita la coniugazione del concetto di anfora con quello della pietra. Questa prima prova effettuata nel 2018 vede Skerlj alla prova di affinamento in roccia dopo le prime bottiglie così prodotte da Zidarich, anch’esse protagoniste della serata nel suo proseguio. La Vitovska è lasciata a contatto con le bucce un anno entro la pietra, gestita con ricolmature, in quanto porosa, poi avviene la maturazione per un anno entro tonneau di legno. Le risultanze gusto-olfattive sono di grande pregio: tocchi di tabacco, mela, fico d’india, giuggiole e ginestre: una sintesi di sentori di mare e macchia mediterranea al sole.
La chiusura non può che spettare a Beniamino Zidarich, antesignano nel percorso del vino in pietra sul Carso-Kras. Egli afferma che “Sul Carso abbiamo poca terra e un concetto di viticoltura diversa dal Friuli”. Egli infatti fermenta sulle bucce fin dalla prima vinificazione nel 1988 mentre nel tempo ha cambiando la densità dell’allevamento in vigna e a modificare la forma di allevamento, ultimamente vocata all’alberello in parete. Se come lui afferma per misurare un viticoltore servono 20 anni di vendemmie, non meno la risultante è frutto della caparbietà e, come capita qui, l’ostinazione delle persone è bilanciata dallo sguardo che è sempre possibile rivolgere al mare. Ultimo ingrediente per il vino, come sottolineato da Ennio Celotti, è appunto il tempo: da sempre funge da valorizzatore, assieme alla storia e alla suggestione della stessa.